Diritto del lavoro e legislazione sociale
29 Luglio 2024
La recente sentenza della Corte Suprema ribadisce la responsabilità solidale tra aziende in caso di cessione di ramo d’azienda e l’obbligo di pagamento dell’integrazione salariale, anche in assenza di intervento Inps.
La vicenda giudiziaria ha inizio nel 2016, quando un gruppo di lavoratori passa alle dipendenze di una nuova società a seguito di un contratto di affitto di ramo d’azienda. Tuttavia, dopo circa 18 mesi, il contratto viene risolto a causa di inadempimenti da parte della società cessionaria e i dipendenti fanno ritorno all’azienda originaria. Il cuore della questione riguarda il mancato pagamento del Fondo di integrazione salariale (FIS) per un periodo di 12 mesi, da febbraio 2017 a febbraio 2018. Tale situazione si è verificata a seguito del rigetto della domanda di accesso al FIS da parte dell’Inps. Durante il periodo in questione, era stata concordata con le parti sociali una riduzione dell’orario di lavoro, che avrebbe dovuto essere compensata proprio attraverso l’erogazione del FIS.
I lavoratori si rivolgono al Tribunale di Napoli per ottenere il pagamento delle differenze retributive dalle due società coinvolte. In primo grado, il Tribunale accoglie la domanda, ritenendo che la riduzione oraria fosse frutto di un accordo tra le parti sociali. La sentenza viene confermata in appello, con la precisazione della responsabilità solidale tra cedente e cessionaria.
La Corte Suprema ha respinto il ricorso della società cedente, confermando l’impianto delle decisioni precedenti e ribadendo due principi cardine del diritto del lavoro italiano. In primo luogo, i giudici hanno ribadito l’obbligo per l’azienda di corrispondere l’integrazione salariale ai dipendenti, anche in assenza di intervento da parte dell’Inps, qualora la riduzione dell’orario di lavoro sia stata concordata con le parti sociali. Questa decisione sottolinea l’importanza degli accordi sindacali e la responsabilità delle aziende nel garantire la stabilità economica dei lavoratori, anche in situazioni di crisi o ristrutturazione aziendale.
Il secondo punto affrontato dalla Corte riguarda la responsabilità solidale tra l’azienda cedente e quella cessionaria in caso di cessione di ramo d’azienda. Questa disposizione mira a tutelare i diritti dei lavoratori coinvolti in operazioni di riorganizzazione aziendale, assicurando che i loro interessi siano protetti indipendentemente dai cambiamenti nella struttura proprietaria dell’impresa.
La pronuncia della Corte di Cassazione segna un punto di svolta significativo nell’ambito del diritto del lavoro, in particolare per quanto riguarda i trasferimenti d’azienda. La sentenza in questione ribadisce con forza il principio di responsabilità delle imprese nei confronti dei propri dipendenti, anche in situazioni di particolare complessità organizzativa o finanziaria.
Il verdetto della Suprema Corte pone l’accento su un aspetto fondamentale: le aziende non possono sottrarsi ai propri obblighi retributivi verso i lavoratori, nemmeno quando si trovano ad affrontare operazioni societarie articolate o in assenza di supporto da parte degli enti previdenziali.
Tale principio si applica in modo particolare ai casi di cessione o affitto di rami d’azienda, situazioni in cui spesso i diritti dei lavoratori rischiano di essere compromessi.
Le società coinvolte in tali operazioni devono ora tenere ben presente che la responsabilità solidale per gli obblighi retributivi nei confronti dei dipendenti persiste anche dopo il trasferimento. Ciò comporta la necessità di una pianificazione più accurata e di una valutazione approfondita dei rischi finanziari associati a queste transazioni.
Il verdetto solleva anche interessanti questioni sul ruolo degli enti previdenziali in queste situazioni. La Corte ha chiarito che l’eventuale mancato intervento dell’Inps non esime le aziende dalle loro responsabilità verso i lavoratori. Ciò potrebbe portare a una ridefinizione dei rapporti tra imprese ed enti previdenziali.
La Cassazione va oltre il mero chiarimento di aspetti sostanziali del diritto del lavoro, affrontando questioni procedurali di notevole rilevanza. Il verdetto, infatti, si addentra nel delicato tema dei poteri interpretativi del giudice, tracciando con maggiore nitidezza i limiti entro i quali la magistratura può operare nell’esame delle domande giudiziali. Il fulcro della discussione ruota attorno al concetto di “ultrapetizione”,che limita il potere decisionale del giudice, impedendogli di esprimersi su questioni non sollevate dalle parti. Tuttavia, la Corte ha chiarito che tale divieto non preclude al magistrato la possibilità di riqualificare giuridicamente le domande presentate.
È importante sottolineare che questa facoltà sia vincolata al rispetto dei fatti costitutivi della pretesa, così come descritti dalle parti nel corso del giudizio. In altre parole, il giudice può attribuire una qualificazione giuridica diversa a una domanda, ma sempre basandosi sui fatti presentati dalle parti, senza introdurre elementi nuovi o diversi.
Questo orientamento riflette la volontà del sistema giudiziario di trovare un equilibrio tra due esigenze apparentemente in contrasto: da un lato, assicurare una tutela effettiva dei diritti dei cittadini; dall’altro, preservare i principi fondamentali del processo civile, in particolare il principio dispositivo e quello del contraddittorio.