Società e contratti
04 Gennaio 2024
La diffusa pratica fiscale di accantonare in favore degli amministratori un'indennità di fine mandato nasconde una serie di rischi da valutare con attenzione.
Nel quadro generale del trattamento economico in favore degli amministratori, quella di prevedere l’accantonamento annuale di un’indennità di fine mandato costituisce una diffusa prassi di pianificazione fiscale. Questa fattispecie, seppure perfettamente legittima, porta con sé una serie di insidie.
Il primo aspetto da valutare è quello legato alle contestazioni sulla deducibilità di tale trattamento.
L’art. 105 del Tuir stabilisce che gli accantonamenti ai fondi per le indennità di fine rapporto e ai fondi di previdenza del personale dipendente sono deducibili nei limiti della quota maturata in ogni esercizio. Al comma 4, estende poi la stessa regola agli accantonamenti relativi alle indennità di cui all’art. 17, c. 1, lett. c), d) e f). Quelle di cui alla lett. c) sono proprio le indennità relative alla cessazione dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa tra cui rientra l’indennità di fine mandato in favore degli amministratori di società.
Il fatto che l’art. 105, circa la deducibilità, faccia riferimento all’art. 17, in realtà, non avrebbe alcuna attinenza con la possibilità di deduzione di tale costo; infatti l’art. 17 dispone esclusivamente in tema di tassazione separata, prevedendo che tale modalità di tassazione si possa applicare soltanto se il diritto all’indennità risulta da atto avente data certa anteriore all’inizio del rapporto.
Su questo assurdo equivoco è stato costruito uno zoccolo duro di interpretazioni distorte da parte dell’Agenzia delle Entrate che, purtroppo, trovano conferma in una costante giurisprudenza della Corte di Cassazione. Traducendo, l’accantonamento è deducibile solo se risulta da atto avente data certa anteriore all’inizio del rapporto. Tesi che potrebbe anche essere condivisa, dal momento che sia la previsione del diritto all’indennità all’interno dello statuto sia nella successiva delibera assembleare di nomina degli amministratori sarebbero astrattamente idonee ad assolvere a questo obbligo, se non fosse che sia l’Amministrazione Finanziaria che la giurisprudenza di legittimità pretendono che la delibera (o lo statuto) indichi anche il quantum di tale accantonamento.
Su quest’ultima previsione è tuttavia condivisibile che la delibera assembleare debba stabilirne l’entità per evitare che la determinazione dell’indennità sia completamente arbitraria; si può discutere sulle modalità per conferire la data certa (registrazione, scambio di corrispondenza, PEC), ma il fatto che l’atto con cui si quantifica l’accantonamento a titolo di TFM debba avere data certa anteriore all’inizio del rapporto rischia di creare un corto circuito.
Ovviamente, questa interpretazione è fortemente criticata dalla dottrina perché non ha un preciso fondamento normativo.
Altro rischio che incombe sull’indennità in parola è quello relativo alla contestazione in ordine alla sua corretta quantificazione ovvero alla sua congruità. Il trattamento di fine mandato, al contrario del trattamento di fine rapporto dei lavoratori dipendenti, non ha una norma propria che ne stabilisce il criterio di calcolo. È inaccettabile quanto affermato dalla giurisprudenza (seppure minoritaria) che l’indennità debba essere calcolata con il criterio stabilito dall’art. 2120 c.c. per il TFR.
Ultimo rischio, quello legato alla rinuncia all’incasso da parte dell’amministratore. Fattispecie, quest’ultima, che genera sopravvenienza attiva verso la società, ma è ampiamente dibattuta la tesi sull’imponibilità in capo all’amministratore.