Antiriciclaggio

22 Febbraio 2025

Stipula di un fittizio contratto di affitto dell’azienda

La stipula di un contratto d’affitto di un’azienda posta, successivamente, in liquidazione giudiziale con un’altra società amministrata dal medesimo soggetto non integra la fattispecie di autoriciclaggio.

La Corte di Cassazione ha chiarito, in più di un’occasione, che non integra il reato di autoriciclaggio la stipula di un contratto di affitto d’azienda a beneficio di una società amministrata dallo stesso soggetto. Infatti, il mero trasferimento dei beni distratti verso imprese (sul solo presupposto della fisiologica destinazione delle medesime all’operatività aziendale di queste ultime) finirebbe per sanzionare penalmente 2 volte la stessa condotta quando le somme sottratte alla garanzia patrimoniale dei creditori sociali siano dirette verso imprenditori, generando, rispetto a tale situazione specifica, un’ingiustificata sovrapposizione punitiva tra la norma sulla bancarotta e quella di cui all’autoriciclaggio.

La Corte di Cassazione, infatti, esclude che la stipula di un simulato contratto d’affitto dell’azienda che integra l’atto distrattivo del patrimonio sociale divenuto punibile a seguito della declaratoria di fallimento (oggi liquidazione giudiziale), quale fatto di bancarotta fraudolenta, possa al contempo integrare la condotta illecita di autoriciclaggio che per la sua punibilità richiede il compimento di ulteriori atti diretti alla dissimulazione dell’oggetto materiale del reato.

Il delitto di autoriciclaggio punisce, infatti, quelle attività di impiego, sostituzione o trasferimento di beni o altre utilità commesse dallo stesso autore del delitto presupposto che abbiano però la caratteristica specifica di essere idonee a “ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa”.

È un reato di pericolo concreto e il giudice penale deve valutare l’idoneità della condotta posta in essere ovvero che sia dotata di particolare capacità dissimulatoria, idonea a provare che l’autore del delitto presupposto abbia effettivamente voluto attuare un impiego finalizzato a occultare l’origine illecita del denaro o dei beni oggetto del profitto, come per esempio le condotte di sostituzione che avvengono attraverso la reimmissione nel circuito economico-finanziario ovvero imprenditoriale del denaro o dei beni di provenienza illecita, finalizzate a conseguire un concreto effetto dissimulatorio che sostanzia il quid pluris o segmento ulteriore che differenzia la condotta di godimento personale, insuscettibile di sanzione, dell’occultamento del profitto illecito, penalmente rilevante (Cassazione Penale, sentenza 30.10.2019, n. 44198).

È chiara la ripercussione in termini di responsabilità dell’ente, atteso che solo la qualificazione della condotta come autoriciclaggio comporta l’eventuale e conseguente responsabilità ex D.Lgs. 231/2001.

In un’altra pronuncia la Corte ha osservato che laddove vi sia uno stretto rapporto cronologico tra l’atto dispositivo che pregiudica i creditori e la crisi che determina l’apertura della procedura concorsuale, non v’è dubbio che questo possa avere una natura pericolosa e concretamente depauperativa, con conseguente responsabilità del suo autore.

Il problema può sorgere, invece, quando quel rapporto cronologico molto stretto non vi sia. In questi casi, infatti, va considerato che l’imprenditore può dare dinamicamente a singoli beni una destinazione diversa che non necessariamente collide con il principio di responsabilità ex art. 2740 c.c. essendo egli tenuto alla conservazione del patrimonio nel suo complesso (Cassazione penale, sent. n. 16414/2024).

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