Immobiliare

08 Settembre 2021

Sorte della somma versata dal convivente per ristrutturare casa

Non è sempre dovuta la restituzione se è possibile provare un valido motivo che lo giustifica.

Un soggetto aveva citato dinanzi al Tribunale l’ex compagna convivente, per ottenerne la condanna al pagamento di € 92.042,01 o della diversa minor somma corrispondente a quanto pagato per eseguire una serie di lavori e opere nell’immobile di proprietà della convenuta. Il Tribunale accoglieva la domanda attorea e condannava la convenuta a corrispondere € 82.583,83, ritenendo gli esborsi non riconducibili alla solidarietà conseguente alla comunanza di affetti, durata solo 4 anni, anche in considerazione delle ulteriori spese sostenute per il mènage familiare, dell’esclusivo vantaggio ricavatone dalla proprietaria dell’immobile e dell’obiettiva consistenza della somma impiegata rispetto al reddito dell’attore e al suo complessivo patrimonio.

La ex convivente impugnava la predetta sentenza dinanzi alla Corte d’Appello, che accoglieva il gravame, ritenendo che l’altro soggetto avesse dato il consenso al verificarsi dello squilibrio patrimoniale, giacché aveva partecipato attivamente ai lavori di ristrutturazione, scegliendo in modo autonomo gli impianti e gli arredi da utilizzare nella casa della convenuta destinata a residenza familiare, persino scontrandosi con la ex convivente che aveva dimostrato di aver reputato talune scelte eccessive; aveva volontariamente deciso di farsi carico di una parte delle spese di ristrutturazione dell’immobile.

Inoltre, qualificava le prestazioni come obbligazioni naturali, trovando esse giustificazione nei doveri di carattere morale e civile di solidarietà e di reciproca assistenza nei confronti della partner e della figlia e senza travalicare i limiti di proporzionalità e di adeguatezza rispetto ai mezzi di cui l’adempiente disponeva e all’interesse da soddisfare (i redditi da lavoro dei 2 conviventi erano simili nell’ammontare, ma il patrimonio immobiliare e mobiliare del convivente nel 2013, anno di cessazione della convivenza, era risultato di € 500.000,00).

È intervenuta la Cassazione civile, sez. VI, con sentenza 1.07.2021, n. 18721, che ha ritenuto la sentenza impugnata coerente con l’affermazione della giurisprudenza, secondo la quale un’attribuzione patrimoniale a favore del convivente more uxorio può configurarsi come adempimento di un’obbligazione naturale allorché la prestazione risulti adeguata alle circostanze e proporzionata all’entità del patrimonio e alle condizioni sociali del solvens.

A monte è da considerare che l’azione generale di arricchimento ha come presupposto la locupletazione di un soggetto a danno dell’altro avvenuta senza giusta causa, sicché non è dato invocare la mancanza o l’ingiustizia della causa qualora l’arricchimento sia conseguenza di un contratto, di un impoverimento remunerato, di un atto di liberalità o dell’adempimento di un’obbligazione naturale.

Pertanto, è possibile configurare l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente more uxorio nei confronti dell’altro convivente, in presenza di prestazioni travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza a vantaggio del primo, ed esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza, il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto.

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