Lettera del direttore ·
19 Febbraio 2025
Non era difficile immaginare che il capitalismo avrebbe portato alla globalizzazione. È nella sua natura creare sempre nuovi mercati, nuovi bisogni e inventare nuovi prodotti per soddisfarli. Bisogni che aumentano indubbiamente il nostro benessere ma anche bisogni che in realtà non sono strettamente tali, quelli indotti dalla pubblicità, bisogni superflui o mode passeggere.
Non era difficile immaginare che il capitalismo avrebbe portato alla globalizzazione. È nella sua natura creare sempre nuovi mercati, nuovi bisogni e inventare nuovi prodotti per soddisfarli. Bisogni che aumentano indubbiamente il nostro benessere ma anche bisogni che in realtà non sono strettamente tali, quelli indotti dalla pubblicità, bisogni superflui o mode passeggere.
Sembra che del sistema capitalistico non possano fare a meno neanche quei sistemi politici che lo hanno avversato culturalmente e ideologicamente. Quindi, ecco il grande mercato globale, giù le barriere ed i vincoli per le merci, delocalizzazioni a volte avvedute, grandi aperture e anche grandi speranze che, dopo le merci, anche gli uomini e le idee possano liberamente circolare in un mondo interconnesso.
Ora, quest’ultimo passaggio ha incontrato molte criticità ed anche le merci stanno subendo restrizioni nella libera circolazione. Di fatto non è seguito alla spontaneità globalizzante un affinamento dei poteri di governo sovranazionali.
Gli stati nazionali non hanno rinunciato ai loro confini di potere ed è venuta a mancare la capacità di gestire un mondo che la globalizzazione ha reso sempre più complesso. C’è un ritorno a quelle piccole o grandi isole costrette all’autosufficienza, incompatibili con il capitalismo liberale.
La “sglobalizzazione”, di fatto, come globalizzazione deflagrata, non potrà contraddire la natura del libero mercato. Prenderanno forma altre relazioni commerciali e industriali, magari basate su principi e convenzioni diverse da quelle del passato, ma la dimensione del mercato rimarrà globale: come è possibile pensare altrimenti con lo sviluppo potente delle reti di connessione, con Internet, i satelliti, l’IA?
Quello che temo cambierà saranno i livelli ed i centri politici di gestione delle relazioni umane, spazzati via da nuovi centri di potere non sempre rappresentativi della comunità internazionale o regionale. Non che quelli esistenti funzionino in modo adeguato.
Hanno subìto la forte accelerazione dei tempi della società digitale. Strutture, regolamenti, iter decisionali che non appaiono più efficaci per un mondo radicalmente cambiato negli ultimi decenni. Si può passare dalla sglobalizzazione senza regole, dove si affermano soggetti ed interessi non proprio coerenti con spinte di pace e di redistribuzione di una ricchezza fortemente squilibrata, a una ri-globalizzazione ben temperata, che salvaguardi principi che, al contrario delle strutture internazionali, non si sono certamente consunti o svalorizzati?
Potrebbe accadere solo se si formasse uno di quei vortici valoriali che ogni tanto l’umanità ha saputo creare: uno spirito collaborativo rinnovato, di reciproco riconoscimento che possa produrre organismi di forte impatto reputazionale, di potere decisionale agile.
Purtroppo nella storia questo è successo, non molto di frequente, dopo immani catastrofi e questa volta sarebbe una bella sfida provarci senza dover elaborare lutti e rimpiangere la nostra intelligenza sopraffatta dalla stupidità.
Una bella spinta ad unirci, noi umani terrestri, sarebbe la certezza di non essere soli nell’universo e di provare un po’ di paura per una possibile minaccia esterna, invece di crearcene sempre una tra di noi.
Magari lo scopriremo. E magari sarà troppo tardi.