Lettera del direttore ·
27 Dicembre 2023
Mi avventuro a parlare di questione femminile e vorrei farlo con delicatezza, poiché a farlo da maschio si rischia di sbagliare approccio, linguaggio e anche di essere condizionati da impostazioni culturali da rivedere e messe in crisi da nuovi pensieri. Ed è difficile soprattutto dopo la giusta ondata di sdegno e di impegno che ha fatto seguito a vari episodi di femminicidio che hanno turbato il Paese.
Per non rischiare troppo mi atterrò a temi noti che riguardano il nostro lavoro e il campo dei nostri interessi.
Ho notato in questi ultimi anni un notevole emergere di figure femminili nell’imprenditoria. Avviene in molti campi anche tradizionalmente considerati “maschili”, come l’enologia, le nuove tecnologie, l’ingegneria, il management di grandi aziende ad alta innovazione, la ristorazione e altri settori che insistono su prodotti creativi, le cui aziende stanno su mercati difficili e molto competitivi.
Ho sempre pensato che il termine coraggio, alla fine, sia un termine femminile, senza piaggeria, conoscendo i mille orizzonti di operatività delle donne: dalla cura familiare, al sostentamento della famiglia, fino al farsi carico di situazioni problematiche in campo economico nelle aziende in cui molte lavorano o che gestiscono direttamente.
Una delle strade che mi sembra più battuta da una fortunata carriera al femminile è quella di prendere in mano le sorti dell’azienda familiare da parte delle giovani generazioni: donne che garantiscono una continuità all’azienda familiare e che spesso gestiscono con successo e una certa dose di creatività, una qualità specifica dell’approccio femminile.
Altro discorso si deve fare, invece per il lavoro dipendente, dove le donne subiscono un’iniqua disparità di trattamento. Nel settore pubblico si registra un 4-5% di differenziale nel trattamento economico per ora lavorata, mentre è nel privato che il delta si fa più evidente con il 15-16%. È quest’ultimo dato che mostra con più forza la disparità di genere a pari impegno lavorativo e la responsabilità non tanto della contrattazione, che prevede parità di trattamento, quanto, invece, della discrezionalità aziendale sulle concessioni ad personam.
Molto spesso le donne sono penalizzate dalla falsa convinzione che mostrino meno attaccamento agli obiettivi aziendali, che siano meno flessibili e disponibili a causa soprattutto del doppio carico del lavoro domestico. E questo incide anche sulle possibilità di carriera. A questi divari si sta cercando di porre rimedio anche in sede europea con la direttiva della certificazione di genere, che porterebbe le aziende a certificare una condotta virtuosa. È un obiettivo del PNRR che almeno 800 aziende in Italia possano certificarsi in tal senso.
Ci sono alcuni caratteri, inoltre, specifici del femminile, che le imprese dovrebbero prendere in seria considerazione per annoverarli tra le risorse utilmente spendibili. Due di questi sono la sensibilità e la cura. Non è propriamente corretto parlare in modo generico, ma alle donne è attribuito un tipo di sensibilità che può coniugarsi con una maggiore attenzione alle relazioni, alle compatibilità ambientali, al clima di fabbrica, al saper fare squadra. Ovviamente esistono casi che possono smentire questo, ma mi sembra nell’interesse delle imprese fare leva su questa disponibilità che, se ben contestualizzata, può diventare una risorsa preziosa.
C’è poi l’atteggiamento di cura che, nello specifico dell’organizzazione produttiva, diventa attenzione al particolare, qualità lavorativa, applicazione riflessiva. Non è risolutivo dei mille problemi che la disparità di genere si trascina da secoli, ma un contributo possono darlo anche le imprese. Con sensibilità e cura come impegno per l’anno nuovo.