Lettera del direttore ·
16 Luglio 2024
Sembra che l’economia circolare sia entrata nella cultura organizzativa di uno degli eventi più costosi, invasivi e insieme affascinanti dell’era moderna: le Olimpiadi.
Sembra che l’economia circolare sia entrata nella cultura organizzativa di uno degli eventi più costosi, invasivi e insieme affascinanti dell’era moderna: le Olimpiadi.
Con il loro retroterra valoriale decoubertiniano, dell’importante partecipare e non vincere (ma quando mai per gli atleti, soprattutto per chi è ai vertici della propria specialità?), che alcuni definirebbero buonista, le Olimpiadi si collocano in un momento storico di conflitti non proprio ideale per riaffermare valori di solidarietà, pace e fratellanza universale. Soprattutto verrebbe meno il primo significato che le ispirò, quella della tregua in tempi di guerra.
Qualcosa di contemporaneo, tuttavia, si è insinuato nella cultura organizzativa che non può incidere sui valori universali, ma può utilmente insegnare qualcosa con l’adozione di pratiche ormai acquisite anche nel più sfrenato capitalismo.
Dopo le fallimentari prove, in senso proprio economico finanziario, delle edizioni passate (Atene 2004, Londra 2012, Rio 2016, Tokyo 2020 – di Pechino 2008 non si sono mai saputi i conti, come da prassi, peraltro …), il CIO e il Comitato Olimpico Parigi 2024 hanno concordato alcuni principi che faranno scuola per le prossime edizioni. Principi che adottano alcune intuizioni dell’economia circolare e, secondo me, anche del buon senso.
Quindi, in molti casi, si è proceduto all’adattamento di strutture esistenti senza l’esagerato ricorso a nuove faraoniche strutture, poi inesorabilmente abbandonate alla fatiscenza. Si sono valorizzati e potenziati servizi che resteranno poi alla comunità. Vi è stato il coinvolgimento del privato, con grandi sponsor internazionali, ma anche di realtà locali che potranno in futuro gestire le opere costruite appositamente. Sono stati raccomandati e speriamo adottati criteri di sostenibilità ecologica.
Che qualche divagazione sui costi la Grandeur francese se la concederà per l’immagine in mondovisione non vi è alcun dubbio. Stupirebbe il contrario. Sarà comunque interessante capire (e lo capiremo a consuntivo) se la cultura del riuso potrà entrare anche nelle grandi dimensioni e non essere limitata ai negozi vintage o al riciclo delle bottigliette di plastica.
Se i conti andranno bene, le Olimpiadi di Parigi potranno essere prese a esempio non solo per i grandi eventi sportivi (la vicenda della pista da bob dovrebbe raccontare qualcosa di simile per le nostre Olimpiadi invernali), ma anche per le tante grandi e piccole opere se sapranno adottare l’idea dell’economia del riuso che ogni cosa deve avere uno scopo per l’intera durata della sua esistenza.
E magari inserire già nel progetto, di un’opera come di un prodotto, le ipotesi del riutilizzo una volta esaurita la funzione principale.
Troppo presto per valutare l’esito finale, ma le previsioni dei costi di Parigi si aggirano all’interno di una forchetta compresa tra 8,8 e 9,2 miliardi di euro, ben lontani dai 16 miliardi di Londra, Rio e Tokyo, ma anche da qualche imponderabile imprevisto sempre in agguato.
Un po’ di esperienza mi fa dire che non è tutt’oro quello che luccica, ma valutiamo le premesse e alimentiamo la speranza che si possa fare sport e ristabilire buoni principi, anche senza offendere, con spese esagerate, i disagi di milioni di persone per guerre, costrizioni, indigenza e difficoltà.
Il modo ideale per valorizzare lo spirito olimpico, ma anche quello umano.