Lettera del direttore ·
02 Aprile 2024
Riflessioni sulla comunicazione dei prodotti alla luce del forte potere di persuasione degli influencer.
Qualche anno fa un manager di un’azienda produttrice di articoli di moda mi raccontava della progressiva perdita di efficacia dei tradizionali strumenti di comunicazione/promozione dei loro prodotti. I mass media tradizionali, stampa, radio, televisione e i social e Internet non sembravano tenere il passo con l’apparire di un nuovo canale di promozione fondato soprattutto sull’emulazione.
Tramontate le analisi sociologiche sugli status symbol che indicavano appartenenza o successo, una parte non trascurabile di consumatori si era diretta verso modelli di pura imitazione. Sia chiaro: l’emulazione è sempre esistita. Le acconciature, i vestiti, le borse o le scarpe delle dive del cinema o anche la Vespa di Gregory Peck in Vacanze romane, ad esempio. Il cinema, però, era un mondo di fiaba, popolato di personaggi famosi che non avevano nessuna razionale intenzione di vestirsi o mostrare oggetti per promuoverne la vendita. Almeno fino a un certo limite.
Con questa storia degli influencer si è arrivati al punto che milioni di persone sono state “rapite” per seguire modelli senza spessore professionale, artisti del nulla che possono vantare solo una fredda abilità di manipolazione e un perfetto dominio dei nuovi social. Che questi elementi siano componenti di nuove professionalità faccio fatica a comprenderlo, ma probabilmente è un mio limite.
Ebbene, il problema non è tanto chi si dedica a questa attività che, magari, comporta anche sacrifici e studio, poiché di abili “influenzatori” sono piene le pagine di storia. È invece preoccupante l’idea che una propria identità e un proprio modo di essere non passino più attraverso una scelta consapevole tra i mille prodotti che il mercato mette a disposizione, che non ci sia ricerca tra le migliaia di opportunità. Ma forse è proprio la sovrabbondanza che disorienta e che porta al facile affidarsi a modelli precostituiti.
Preoccupa, però, l’incapacità di costruirsi dei propri percorsi di gusto che, tra l’altro, il sistema produttivo saprebbe interpretare con velocità, data la capacità di cogliere le preferenze attraverso gli smartphone.
Poi c’è la tendenza di alcuni settori produttivi a cercare la via facile di chi riesce a indirizzare i consumi verso alcuni prodotti piuttosto di altri. È un canto delle sirene che mi sembra alquanto effimero e che porta l’impresa a essere etero governata dai social. A non avere più fiducia nella propria creatività, con il rischio di dover ondeggiare nel mare delle mode troppo passeggere.
Non è questione di non sapere come va il mondo, di rifiutare il progresso, di non accorgersi della pervasività della comunicazione che viaggia in mille modi e che ci raggiunge, ormai, in ogni momento della giornata attraverso gli strumenti di uso quotidiano, anche senza averla richiesta.
È solo un appello al ritorno alla qualità, al credere fortemente che se un prodotto è pensato per soddisfare un bisogno, per rendere la vita più facile e comoda, per essere apprezzato esteticamente e per facilitare le relazioni, ha già in sé una carica comunicativa propria che lo rende interessante, senza bisogno di molti artifizi manipolatori.
Non si tratta di ingenuità, ma di comunicare, con tutta la creatività possibile, contenuti reali, socialmente apprezzati, che parlino la lingua della sincerità.
Con l’età si impara che ogni impresa che voglia durare nel tempo deve affidare la sua azione a un rapporto corretto con la clientela. E la qualità, il servizio, l’innovazione sono le chiavi della sua longevità.
Perché gli influencer passano e le imprese rimangono.
La nuova guida digitale dedicata al fenomeno dei “creatori digitali” e dei relativi trattamenti fiscali e amministrativi.