Diritto del lavoro e legislazione sociale
30 Maggio 2024
Analizziamo le condizioni di applicazione di una clausola accessoria al contratto di lavoro poco utilizzata e abbastanza controversa: il prolungamento del periodo di preavviso.
Ai sensi dell’art. 2118 c.c., ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando preavviso nel termine e nei modi stabiliti (dalle norme corporative) dagli usi o secondo equità. Pertanto, salvo l’ipotesi di recesso sorretto da giusta causa ex art. 2119 c.c., l’obbligo di preavviso ricade su entrambe le parti contrattuali e ha la funzione di evitare alla parte che subisce il recesso le conseguenze pregiudizievoli determinate dall’immediata cessazione del rapporto di lavoro.
La durata del preavviso è determinata dal contratto collettivo applicabile a cui, ai sensi dell’art. 2077 c.c., le disposizioni dei contratti individuali di lavoro devono uniformarsi. Ciò posto, in determinate ipotesi, le parti possono stabilire un termine di preavviso maggiore o minore rispetto a quello dettato dal CCNL.
La clausola che riduce il preavviso per il licenziamento costituisce una violazione dell’art. 2077 c.c., in quanto finalizzata a modificare in pejus la contrattazione collettiva; dunque, ai sensi dell’art. 2077, c. 2 c.c., tale clausola sarà sostituita di diritto con le previsioni del CCNL in materia di durata del preavviso.
Diversamente, ove venisse ridotto il preavviso per le dimissioni, tale previsione sarebbe valida ed efficace trattandosi di un trattamento di miglior favore per il lavoratore.
Quanto all’ipotesi di prolungamento, è ammissibile la previsione dell’aumento del preavviso di licenziamento in quanto disciplina più favorevole per il lavoratore; al contrario, si è discusso a lungo sulla validità della clausola che aumenti il preavviso per le dimissioni.
Inizialmente la giurisprudenza riteneva valida la clausola inserita nel contratto individuale di lavoro a stabilire un termine di preavviso per le dimissioni più lungo rispetto a quello stabilito per il licenziamento, ove tale facoltà di deroga fosse prevista nel CCNL e il lavoratore ricevesse quale corrispettivo per il maggior termine un compenso in denaro o altri apprezzabili vantaggi, quali, ad esempio, la promozione a una categoria professionale superiore (con conseguente aumento retributivo) e la corresponsione di un assegno ad personam (vedi Cassazione n. 4991/2015).
Fermo il recesso per giusta causa ex art. 2119 c.c., la giurisprudenza oggi ammette che le parti possano regolare diversamente il termine di preavviso (sia datoriale che del prestatore), a prescindere che tale facoltà sia espressamente prevista dal CCNL, purché:
La sussistenza della corrispettività nelle reciproche concessioni non può essere valutata a priori in base a criteri prestabiliti, ma deve essere considerata alla luce del complesso dei diritti e degli obblighi in capo a ciascuna parte.
Manuale completo e operativo dedicato all'analisi delle tipologie contrattuali di lavoro subordinato e parasubordinato vigenti.
Le parti sono infatti libere di stabilire il corrispettivo del prolungamento, che potrebbe consistere nella “reciprocità dell’impegno di stabilità assunto dalle parti ovvero in una diversa prestazione a carico del datore di lavoro, consistente in una maggiorazione della retribuzione o in una obbligazione non-monetaria, purché non simbolica e proporzionata al sacrificio assunto dal lavoratore” (Cass. n. 14457/2017).
L’accordo di prolungamento del preavviso per le dimissioni sarebbe quindi legittimo se, ad esempio, venisse prolungato anche il preavviso per il licenziamento e il lavoratore ricevesse l’attribuzione di benefici economici e di carriera in funzione corrispettiva del vincolo assunto (Cass. n. 19080/2018) o venisse favorito dal computo di tale periodo di preavviso agli effetti dell’indennità di anzianità, dei miglioramenti retributivi e di carriera (Cass. n. 3471/1981, Cass. n. 5929/1979, Cass, n. 18122/2016).
Qualora il c.d. “patto di prolungamento” del preavviso fosse formalmente sorretto (solo) da un minimo incremento retributivo oppure (solo) da un altro minimo trattamento migliorativo rispetto a quello previsto dal CCNL (Cass. 18.07.2018, n. 19080) e per entrambi, non in sostanziale ed effettivo rapporto di corrispettività rispetto (per esempio) a una già preordinata progressione in carriera, tale patto risulterebbe privo di causa o comunque nullo per frode alla legge (art. 1344 c.c.) in quanto concretamente finalizzato a perseguire un interesse tipico assimilabile a un patto limitativo della concorrenza, eludendone i limiti di specificazione dell’attività e di adeguatezza del corrispettivo (cfr. Cassazione, Sez. lav., 10.11.2015, n. 22933).