Diritto del lavoro e legislazione sociale
25 Luglio 2023
Sempre più spesso le aziende, anche alla luce del recente fenomeno delle dimissioni di massa, avvertono la necessità di “trattenere” in azienda il personale qualificato utilizzando, tra i vari strumenti di fidelizzazione, anche i cd. patti di prolungamento del preavviso.
Come noto, ai sensi dell’art. 2118 c.c. ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando preavviso nel termine e nei modi stabiliti dalle norme corporative (oggi dai contratti collettivi), dagli usi o secondo equità.
Il preavviso assolve quindi alla specifica funzione di attenuare le conseguenze pregiudizievoli dell’improvvisa cessazione del rapporto per la parte che subisce il recesso. In particolare, nel caso di recesso da parte del datore di lavoro, il preavviso garantisce al lavoratore una continuità nella percezione del reddito affinché possa cercare una nuova occupazione; mentre, nel caso di recesso da parte del lavoratore, il preavviso garantisce al datore di lavoro un lasso di tempo utile per la ricerca di un sostituto.
Proprio per tali ragioni, ai sensi dell’art. 2118, c. 2 c.c. in mancanza di preavviso, il recedente è tenuto verso l’altra parte a un’indennità equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso.
Sempre più spesso però le aziende, anche alla luce del recente fenomeno delle dimissioni di massa, avvertono la necessità di “trattenere” in azienda il personale qualificato utilizzando, tra i vari strumenti di fidelizzazione, anche i cd. patti di prolungamento del preavviso. Si tratta di clausole con cui la parti, di comune accordo, concordano che un eventuale recesso, salvo quello sorretto da giusta causa, venga assoggettato a un periodo di preavviso avente durata maggiore rispetto a quella prevista dalla contrattazione collettiva.
In assenza di specifiche disposizioni i limiti di utilizzo di tali clausole sono stati individuati dall’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale.
Innanzitutto, risulta pacifico in giurisprudenza che la clausola con cui si introduce il prolungamento del preavviso non rientra in alcuna delle ipotesi di cui all’art. 1341, c. 2 c.c. in materia di clausole vessatorie.
Inoltre, se per la dottrina il patto di prolungamento del preavviso è lecito sole se il maggior termine sia previsto tanto per il lavoratore quanto per il datore di lavoro, per la giurisprudenza maggioritaria, invece, è valida la clausola del contratto individuale che preveda un termine di preavviso per le dimissioni più lungo rispetto a quello stabilito per il licenziamento, ove tale facoltà di deroga sia prevista dal contratto collettivo ed il lavoratore riceva, quale corrispettivo per il maggior termine, un compenso.
Sempre secondo la giurisprudenza maggioritaria, il patto di prolungamento del preavviso è legittimo se il lavoratore riceva, quale corrispettivo per tale deroga, l’attribuzione di benefici economici e di carriera e solo se abbia una durata circoscritta secondo limiti di ragionevolezza.
Per quanto concerne il primo aspetto, con sentenza n. 16527/2015, la Suprema Corte ha precisato che l’ordinamento rimette alle parti sociali ovvero alle stesse parti del rapporto la facoltà di disciplinare la durata del preavviso in relazione alle proprie valutazioni di convenienza, rendendo essenzialmente le parti arbitre del giudizio di maggior favore della disciplina concordata. Pertanto, la durata legale o contrattuale del preavviso è derogabile dall’autonomia individuale in relazione a finalità meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento giuridico, quale quella, ad esempio, per il datore di garantirsi nel tempo la collaborazione di un lavoratore particolarmente qualificato, sottraendolo alle lusinghe della concorrenza, mediante l’attribuzione al dipendente di ulteriori benefici economici e di carriera in funzione corrispettiva del vincolo assunto dal dipendente circa la limitazione della facoltà di recesso ancorandone l’esercizio ad un più lungo periodo di preavviso.
Per quanto concerne, invece, la “ragionevole durata” del patto, in assenza di disposizioni volte a regolare le clausole in commento, la dottrina maggioritaria ha fornito diversi criteri di valutazione, quali, ad esempio, il richiamo alla disciplina sancita dall’art. 2125 c.c. per il patto di non concorrenza, oppure il termine di ventiquattro mesi indicati quale durata massima del contratto a termine dal D.Lgs. 81/2015.