Lettera del direttore · 

18 Aprile 2025

Lealtà

Difficile dire o pensare qualcosa di sensato in un periodo di turbolenza. Credo sia diffuso un senso di impotenza nel vedere decisioni andare in un senso, poi nell’altro e infine riprendere il percorso iniziale. È l’impotenza di un discorso democratico venuto meno, in cui il mandato elettorale basato su delle dichiarazioni, promesse, è poi stravolto con interpretazioni che danno risultati inaspettati. O voluti. Tutti i periodi di passaggio sono turbolenti. Le rivoluzioni lo sono, ma tutti conoscono gli obiettivi e possono schierarsi in anticipo da una parte o dall’altra. L’attuale turbolenza mi rende perplesso poiché non vedo uno sbocco chiaro, ma solo tentativi maldestri di abbozzare un nuovo ordine.

Mi ha colpito un’immagine, come si dice, virale in rete, proposta da giovani cinesi che mostrano un soggetto chiaramente americano, obeso, lavorare a una macchina da cucire. Come a dire che, l’America, gli Stati Uniti, facciano pure protezionismo, ma dovranno trovare cittadini americani disposti a farsi dieci ore al giorno chini sui telai, sulle cucitrici, alla catena di montaggio, all’assemblaggio di cellulari. E dovranno trovarli bianchi, giovani, disponibili a essere sfruttati poiché di immigrati, secondo la dottrina, non ne entreranno più a occupare le mansioni manifatturiere. L’immagine rende bene l’idea del tramonto della divisione internazionale del lavoro che tanto conveniva ai Paesi ricchi, quelli avanzati tecnologicamente che delocalizzavano le produzioni dove la manodopera era a bassa specializzazione e a costo minimo.

Va bene, ci saranno pure i robot alla catena, ma dove troveranno gli Stati Uniti i lavoratori disposti a rientrare nelle fabbriche a salari contenuti in questo processo di auspicata reindustrializzazione interna? Lo stesso discorso vale per l’Italia, dove è incessante l’esodo di giovani istruiti che emigrano, a causa dei salari bassi rispetto ad altri Paesi europei ed extraeuropei. E l’immagine del cittadino americano alla macchina da cucire non è lontana dalla realtà.

C’è stata una fase, qualche decennio fa, dove il nostro distretto della calzetteria femminile si era rivolto al mercato cinese. Si vendevano le calze di alta gamma per i cinesi neoricchi. Poi in Cina hanno capito che era meglio comprarsi le macchine e imparare a usarle, e il mercato di 600 milioni di donne è diventato, per i prodotti non moda, un mercato interno. Lo stesso processo è avvenuto anche per prodotti molto più tecnologici delle calze. I cinesi hanno anche esplorato la parte non visibile della luna.

Ora, a (quasi) parità di tecnologia, a parità di risorse rare e meno rare, chi può vincere la sfida avendo in più un ancora immenso patrimonio di risorse umane pronte a essere formate, desiderose di emanciparsi e arricchirsi? E non possiamo non considerare della partita anche l’India o il Brasile e tutti gli Stati emergenti. Io avrei qualche dubbio e non scommetterei sul solito vincitore.

Mi terrei stretti i vecchi amici, magari riallacciando i rapporti se c’è stata qualche incomprensione, rivitalizzando l’amicizia e scoprendo una medicina formidabile: la lealtà. Proprio la lealtà, che è quell’atteggiamento che rende prevedibili le azioni degli altri, che ci dà modo di adattarci e di rispondere con coerenza, che ci fa fare piani a lungo termine e rende sicuri i progetti.

Anche sul piano internazionale, non solo con gli amici, ma anche con gli avversari, la lealtà ci fa dormire di notte.

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