Accertamento, riscossione e contenzioso
11 Agosto 2022
La qualificazione dei crediti d’imposta indebitamente fruiti tra l’orientamento della giurisprudenza e la prassi dell’Agenzia delle Entrate.
Con l’intensificarsi dei controlli sul corretto utilizzo dei crediti d’imposta che, negli ultimi anni, hanno avuto il sopravvento, primo fra tutti il credito d’imposta per attività di ricerca e sviluppo, torna alla ribalta un tema dibattuto ovvero quello relativo alla corretta qualificazione dei crediti d’imposta indebitamente utilizzati.
Il D. Lgs. 471/1997, all’art. 13, cc. 4 e 5, definisce quali sono le sanzioni amministrative previste per l’indebita fruizione del credito d’imposta.
Nel caso di utilizzo di un’eccedenza o di un credito d’imposta esistenti in misura superiore a quella spettante o in violazione delle modalità di utilizzo previste dalle leggi vigenti, si applica la sanzione pari al 30% del credito utilizzato.
Qualora invece venga utilizzato in compensazione un credito d’imposta inesistente, la sanzione varia dal 100 al 200% del credito stesso. Inoltre, in quest’ultimo caso, non è ammessa la definizione agevolata prevista dagli artt. 16, c. 3 e 17, c. 2 D.Lgs. 472/1998. Il credito viene definito “inesistente” quando manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo e la cui inesistenza non sia riscontrabile mediante i controlli automatizzati (artt. 36-bis e 36-ter D.P.R. 600/1973; art. 54-bis D.P.R. 633/1972).
Con queste poche righe la norma ci fa ben comprendere come sia fondamentale la distinzione tra le 2 fattispecie, stante il diverso quadro sanzionatorio. A questo si aggiunge la legge penale-tributaria (D.Lgs. 74/2000) che prevede una soglia di punibilità piuttosto bassa (50.000 euro) e sanzioni più pesanti in caso di utilizzo di crediti inesistenti rispetto a quelli non spettanti.
A chiudere il quadro, le norme che stabiliscono termini decadenziali ben più lunghi per la contestazione dei crediti inesistenti rispetto a quelli non spettanti (art. 27, c. 16 D.L. 185/2008 e art. 43 D.P.R. 600/1973).
La Cassazione (sentenze 16.11.2021, nn. 34444 e 34445) ha affermato il principio secondo cui un credito deve intendersi inesistente quando manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo, ricalcando quanto disposto dall’art. 13, c. 5 D. Lgs. 471/1997. Tuttavia, la Suprema Corte pone l’accento sul fatto che, per qualificare il credito come non esistente, occorre che tale fattispecie non sia riscontrabile mediante i controlli automatizzati. Pertanto, in tutti i casi in cui il credito venga indebitamente utilizzato, ma sia comunque riportato in una dichiarazione fiscale, tale circostanza dovrebbe indurre ad escludere la sua inesistenza. E si badi bene, devono concorrere entrambi i requisiti ossia la mancanza del presupposto costitutivo e la non riscontrabilità tramite controlli automatizzati.
Tale principio è stato anche recentemente ribadito dalla C.T.P. di Rovigo (sent. n. 70/2022), ma con una precisazione: l’inesistenza del credito può configurarsi anche quando esso sia indicato in dichiarazione, ma sia fondato su documenti falsi o in caso di assenza di documenti.
La prassi dell’Agenzia delle Entrate, soprattutto in tema di credito d’imposta per ricerca e sviluppo, è andata ben oltre il tenore della norma e la posizione della giurisprudenza di legittimità. L’Amministrazione Finanziaria tende, infatti, a ignorare la distinzione tra credito inesistente e non spettante e a qualificare inesistente il credito ogni volta che manchino i requisiti di ammissibilità, ma le norme sembrano parlare in modo piuttosto chiaro e la Suprema Corte sembra essere stata altrettanto chiara.