Amministrazione del personale
30 Ottobre 2023
La Corte di Cassazione afferma la legittimità del licenziamento comminato a una lavoratrice che ha rifiutato la trasformazione del contratto da part-time a full-time, a causa dell’impossibilità di utilizzo della prestazione a tempo parziale. Nell’articolo le motivazioni della Corte.
Con ordinanza 23.10.2023, n. 29337, la Corte di Cassazione ha ritenuto legittimo il licenziamento di una dipendente che aveva rifiutato la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno.
Nel caso di specie la lavoratrice, con qualifica di impiegata amministrativa di 2° livello nel settore terziario, con contratto part-time orizzontale di 20 ore settimanali, veniva licenziata dopo aver rifiutato la proposta di trasformare il rapporto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno e aver istruito la neoassunta full-time.
La lavoratrice impugnava il recesso adducendo l’assenza del giustificato motivo oggettivo, stante l’incremento dell’attività che, a suo dire, non giustificava la soppressione del posto di lavoro e la contestuale assunzione di una nuova risorsa a tempo pieno per analoghe mansioni.
La Corte di appello di Milano, in riforma della pronuncia di 1° grado, ha dichiarato la nullità del licenziamento condannando la società alla reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria nella misura della retribuzione utile per il calcolo del TFR, oltre al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali. Per i giudici di merito la riorganizzazione aziendale prospettata dall’azienda era pretestuosa, in assenza della dimostrazione dell’impossibilità per la società di ripartire tra le due lavoratrici un pacchetto complessivo di clienti o la difficoltà a reperire in tempi brevi una risorsa part-time. Il licenziamento, inoltre, è stato considerato ritorsivo perché in evidente collegamento causale con il rifiuto della lavoratrice.
La società ha proposto ricorso in Cassazione della decisione di merito, adducendo che la pronuncia impugnata non ha rispettato i principi di legittimità in tema di limiti al sindacato giudiziale delle decisioni organizzative assunte dall’imprenditore e da questi poste in relazione di causalità con il provvedimento espulsivo: in particolare nella parte in cui si è ritenuto che la riorganizzazione posta concretamente in essere per fronteggiare la non contingente situazione di insufficienza delle risorse nel gestire l’incremento del carico di attività, e posta a base del licenziamento, fosse pretestuosa e non effettiva.
Per la società, i giudici di merito hanno errato nel ritenere il licenziamento di natura ritorsiva, senza considerare che tale motivo deve essere “unico e determinante” ossia dovendo costituire l’unica effettiva ragione del recesso, indipendentemente dal motivo formalmente addotto, mentre nel caso di specie era già stata rilevata l’assenza di una legittima giustificazione al recesso datoriale, facendo coincidere la prova della ritorsione con le medesime circostanze valorizzate per dichiarare l’illegittimità del motivo oggettivo invocato.
Gli Ermellini, accogliendo il ricorso proposto dalla società, hanno precisato che il rifiuto della trasformazione del rapporto di lavoro part-time diventa una componente del più ampio onere della prova del datore che comprende le ragioni economiche da cui deriva l’impossibilità di continuare a utilizzare la prestazione a tempo parziale e l’offerta del full-time rifiutata.
Sicché il rifiuto alla trasformazione del rapporto da part-time a full-time non è motivo di licenziamento in sé, ma la società può recedere dal rapporto qualora dimostri l’impossibilità di utilizzare la lavoratrice e tale trasformazione sia l’unica soluzione organizzativa possibile per l’azienda. In altri termini, spetta all’azienda, nel contesto di una riorganizzazione aziendale, la scelta di sopprimere la posizione part-time a favore di una full-time, se il lavoratore rifiuta la trasformazione.
Quanto alla natura ritorsiva del licenziamento, i giudici di merito devono distinguere tra l’accertamento della legittimità della scelta imprenditoriale e l’eventuale sussistenza di un’illecita ritorsione, la cui prova incombe sul lavoratore, purché abbia avuto efficacia determinante esclusiva, anche rispetto ad altri fatti idonei a configurare una giusta causa o un giustificato motivo di recesso.