Immobiliare
08 Ottobre 2024
L’uso e l’effettiva fruizione dell’immobile influenzano il trattamento dell’eventuale plusvalenza in caso di cessione entro il quinquennio dell’immobile.
In caso di cessione, entro il quinquennio dall’acquisto, di un immobile che sia formalmente classificato “ad uso ufficio”, anche oggettivamente classificabile “ad altri usi abitativi”, l’effettiva adibizione di esso ad abitazione principale del soggetto cedente (sul quale grava essenzialmente il relativo onere probatorio), o di un suo familiare, da intendersi come destinazione a dimora abituale, ove realizzatasi per la maggior parte del periodo intercorso tra l’acquisto e la cessione, integra un presupposto idoneo a escludere l’assoggettamento a tassazione dell’eventuale plusvalenza addebitabile al medesimo cedente, anche qualora tale destinazione sia stata resa concreta contrastando la classificazione catastale propriamente conferita all’immobile, potendosi anche in tal caso escludere l’intento speculativo dell’operazione. A tale conclusione è giunta la Quinta Sezione Civile della Cassazione con l’ordinanza 25.06.2024, n. 17528.
La casistica esposta trae spunto dalla notifica di 2 differenti avvisi di accertamento (destinati a 2 differenti soggetti) emanati dall’Agenzia delle Entrate, scaturenti dalla plusvalenza conseguita, in base alla ricostruzione erariale, da una operazione di rivendita infraquinquennale di un immobile in comproprietà, iscritto in catasto in categoria A/10 (Uffici e studi privati).
Impugnati separatamente gli avvisi di accertamento emanati, in sede di giudizio di primo grado i ricorsi venivano parzialmente accolti, con conseguente ridefinizione della maggiore imposta dovuta.
I contribuenti proponevano in ogni caso appello. Il fulcro della doglianza fatta valere con il gravame ruotava essenzialmente intorno all’insussistenza di una plusvalenza tassabile, dal momento che, indipendentemente dalla categoria catastale A/10, l’immobile era stato adibito ad abitazione principale della famiglia e la sua successiva rivendita non era finalizzata al perseguimento di un intento speculativo, ma si era resa necessaria, a causa di una situazione di crisi familiare che aveva condotto alla separazione personale tra i coniugi.
Per tale ordine di ragioni, pertanto, è stato accolto il ricorso con riferimento al motivo afferente all’insussistenza di una plusvalenza tassabile, annullando gli atti impositivi originariamente impugnati.
Veniva osservato che la disposizione di cui all’art. 67, c. 1 D.P.R. 917/1986, nell’escludere dalle plusvalenze tassabili le somme ottenute dalla vendita infraquinquennale di immobili adibiti ad abitazione principale, non contiene alcun riferimento alla loro categoria catastale.
Si aggiungeva inoltre che l’assegnazione di un immobile a una categoria catastale non può assumere rilevanza probatoria assoluta in relazione all’utilizzo corrispondente alla classificazione, sicché l’inclusione di un immobile in una categoria che normalmente identifica un uso diverso da quello abitativo, come avviene intuitivamente per la categoria A/10, concernente una destinazione “ad uso ufficio” o “studio privato”, non precludeva la possibilità di provare, da parte del contribuente, che l’immobile stesso fosse stato effettivamente adibito ad abitazione principale e, come tale, sottratto per legge all’imposizione fiscale sulla plusvalenza derivante dalla vendita prima del decorso di cinque anni dall’acquisto.
La prova dell’effettivo utilizzo era stata d’altronde adeguatamente fornita mediante la produzione dei certificati di residenza, evidenze documentali delle forniture di utenze domestiche (luce, gas e telefono), del pagamento della tassa sui rifiuti e delle quote condominiali.
Si trattava di un compendio documentale idoneo a superare la presunzione di non utilizzo a fini abitativi.