Diritto del lavoro e legislazione sociale
17 Maggio 2023
Lo strumento di fidelizzazione del dipendente tra liceità e penali.
Tra gli strumenti di fidelizzazione del dipendente spesso si annovera anche la clausola di prolungamento del periodo di preavviso per il lavoratore. Con tale pattuizione, in buona sostanza, si mira a prolungare il periodo di preavviso necessario per cessare tramite dimissioni il rapporto di lavoro (normalmente a tempo indeterminato), ai sensi dell’art. 2118 c.c.
Tale clausola è a tutti gli effetti una delle molte sfumature dell’autonomia negoziale privata che consente di adattare il rapporto di lavoro alle particolari esigenze delle parti.
Ovviamente, muovendoci nel campo del diritto del lavoro, nel tempo si è pervenuti, con una regolazione tipicamente praeter legem, a circoscrivere gli effetti e le limitazioni della clausola in oggetto, potenzialmente pericolosa per il lavoratore limitato nell’accesso al mercato del lavoro (anche se per sua volontà, posto che si è in presenza di un accordo).
In particolare, la giurisprudenza, che l’ha ritenuta in linea di massima lecita e non vessatoria, nel tempo ha comunque consegnato una serie di indicazioni e condizioni da considerare al fine di non cadere nell’ipotesi di illegittimità, stante il teorico sacrificio del lavoratore.
Generalmente, si è ritenuto che la pattuizione di un periodo di preavviso più lungo di quello stabilito dalla contrattazione collettiva fosse lecita esclusivamente laddove consentita espressamente da quest’ultima. D’altra parte, in un momento successivo si è ritenuto possibile addivenire a un accordo in tal senso anche in assenza di espressa previsione del contratto collettivo, a patto che la clausola preveda una controprestazione per il sacrificio del prestatore di lavoro.
In tal modo, pur in assenza di previsione espressa del contratto collettivo, si realizzerebbero le condizioni previste dall’art. 2077 c.c. che permettono di derogare, ma solo in melius, alle prescrizioni date dalla contrattazione collettiva.
In altre parole, il “peso” della controprestazione prevista per il lavoratore risulta determinante al fine di consegnare legittimità alla clausola ed è pertanto ovvio che tale controprestazione debba essere non solo aggiuntiva rispetto ai minimi retributivi previsti, ma certamente significativa (non simbolica) e soprattutto correlata e proporzionata al prolungamento desiderato, che la dottrina limita al massimo a 2 anni, in analogia con il patto di non concorrenza.
In aggiunta, pare opportuno affermare che, in considerazione degli obiettivi prefissati (la fidelizzazione), si ritiene appropriato apporre una penale nella clausola per scoraggiare l’inadempienza. Sulla questione è ancora la giurisprudenza che si è espressa, chiarendone la liceità, purché la penale non risulti eccessiva e sproporzionata. Ovviamente, in caso di inadempimento, il datore di lavoro potrà far valere la penale accordata e le somme erogate a titolo di controprestazione risulteranno non dovute nei confronti del lavoratore, poiché prive di causa, e, pertanto, da restituire. Per dovere di completezza, vi è da dire che non tutta la dottrina pare concorde sulla previsione di una penale che corra in parallelo e sia quindi aggiuntiva, rispetto alla semplice restituzione da parte del lavoratore delle somme percepite a titolo di controprestazione.
Il patto di prolungamento del periodo di preavviso, come visto, è certamente un potente strumento in mano alle parti, ma si potrebbe riflettere sul fatto che, al fine di fidelizzare il dipendente, sarebbe meglio puntare sul coinvolgimento più che sul trattenere tramite espedienti contrattuali; ma questa, evidentemente, è un’altra storia…