Diritto del lavoro e legislazione sociale
30 Giugno 2022
Nei prossimi mesi si preannuncia l’ennesima revisione della disciplina dei congedi di maternità, di paternità e dei congedi parentali, nonché l’introduzione di misure volte a favorire la genitorialità e a garantire la conciliazione tra tempi di lavoro e tempi di vita.
Com’è noto, nel mese di aprile è stata approvata la L. 32/2022 (c.d. Family Act), che contiene deleghe al Governo per il sostegno e la valorizzazione della famiglia, ed è in corso di approvazione il decreto legislativo di attuazione della direttiva 2019/1158/UE relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza.
Il Family Act, in particolare, prevede all’art. 3 la revisione della disciplina dei congedi e, all’art. 4, l’introduzione di misure volte a incentivare il lavoro femminile, la condivisione della cura e l’armonizzazione dei tempi di vita e di lavoro, il tutto con un termine piuttosto lungo per l’esercizio della delega (24 mesi). Lo schema di decreto legislativo interviene sostanzialmente sulle stesse materie, con un evidente cortocircuito che richiederà un’opera di armonizzazione delle 2 normative non facilissima. La difficoltà emerge con chiarezza dal parere reso il 17.05.2022 dalla XI commissione permanente della Camera, che suggerisce al Governo di introdurre nello schema di decreto legislativo alcune modifiche, in linea con le previsioni del Family Act.
In questo susseguirsi di interventi sulla medesima materia, nel quale si può anche intravedere una rivendicazione di competenze tra il Ministero del Lavoro e quello della Famiglia, emerge con chiarezza l’assenza di uno dei temi al tempo stesso più innovativi e più controversi tra quelli affrontati dalla direttiva 2019/1158/UE. Il riferimento è alle previsioni dell’art. 9 della direttiva citata, relativo alla flessibilità dei tempi di lavoro in funzione di agevolazione della conciliazione/condivisione dei tempi di vita e di lavoro. Eppure, che la flessibilità del lavoro sia una leva strategica per questa finalità lo dimostrano tutte le ricerche in materia, secondo le quali i possibili rimedi alla scarsa partecipazione al lavoro delle donne con incombenze di cura va contrastata con il miglioramento dei servizi di assistenza e con politiche volte a una più equa ripartizione dei tempi dedicati al lavoro non retribuito.
La direttiva 2019/1158/CE pone una particolare attenzione alla flessibilità del lavoro in funzione di conciliazione/condivisione, con alcune previsioni che sono suscettibili di incidere in maniera significativa sull’assetto attuale della regolazione nazionale in materia, anche alla luce dei più recenti interventi del legislatore. L’attuazione della direttiva, peraltro, avrebbe potuto essere l’occasione per una sistemazione organica delle previsioni in materia, oggi distribuite in una pluralità di interventi, la cui disomogeneità ne rende complessa la ricostruzione. La situazione, peraltro, risulterà oltremodo aggravata dall’approvazione dei provvedimenti di cui si è accennato sopra.
La direttiva 2019/1158/UE dedica al tema della flessibilità del lavoro previsioni molto significative. Già nei “considerando” si prevede che “i lavoratori che sono genitori e prestatori di assistenza dovrebbero poter adeguare il calendario di lavoro alle proprie esigenze e preferenze personali” e che, di conseguenza, essi hanno “il diritto di richiedere modalità di lavoro flessibili al fine di adeguare l’organizzazione della vita professionale, anche, laddove possibile, mediante l’uso del lavoro a distanza, calendari di lavoro flessibili o una riduzione dell’orario di lavoro” (cons. 34). Nel successivo “considerando”, oltre a prevedere la possibilità per il datore di lavoro di approvare o respingere la richiesta, la direttiva introduce il diritto dei lavoratori e delle lavoratrici alla reversibilità, cioè a “ritornare all’organizzazione della vita professionale originale” non solo al termine del periodo originariamente convenuto, ma anche prima, se si verifichi “un cambiamento delle circostanze”.
Alle indicazioni appena ricordate corrisponde il testo dell’art. 9 della parte precettiva della direttiva, che si apre riconoscendo ai lavoratori con figli di un’età non inferiore a 8 anni e ai prestatori di assistenza “il diritto di chiedere orari di lavoro flessibili”. In primo luogo, è bene precisare che tale diritto riguarda non solo le modifiche dell’orario, ma anche le modalità di organizzazione del lavoro, come si ricava anche dai paragrafi 2 e 3 (dove si parla di “organizzazione della vita professionale”), nonché dalla stessa intitolazione dell’articolo. Tra le modalità in parola rientra dunque anche la richiesta di svolgere l’attività lavorativa a distanza, come peraltro precisa il considerando 35 della direttiva. Occorre dire qualche parola, preliminarmente, sulla portata del diritto riconosciuto dall’art. 9, cui corrisponde l’obbligo del datore di lavoro di prendere in considerazione la richiesta e di motivarne l’eventuale rifiuto o differimento. L’apparente debolezza della formulazione della norma, dovuta probabilmente alla complessità dell’iter che ha portato all’approvazione della direttiva, non deve indurre a svalutarne il contenuto.
La previsione disegna un vero e proprio diritto non a chiedere (che non avrebbe senso), quanto a ottenere modalità di lavoro flessibile, che gli Stati membri possono certamente subordinare alla presenza di date condizioni (come l’età dei figli o la qualità di caregiver), così come devono prevedere la possibilità per il datore di lavoro di respingere o differire la richiesta in presenza di condizioni oggettive, legate alle necessità dell’organizzazione produttiva. Nel nostro ordinamento un’ipotesi analoga è prevista per il rifiuto o il differimento del congedo formativo ex art. 5, L. 8.03.2000, n. 53, che è subordinato alla presenza di comprovate esigenze organizzative, la prova delle quali spetta al datore di lavoro.
Per non parlare delle ipotesi di riconoscimento del diritto all’adibizione al lavoro agile, previste in numerose norme emanate nel periodo dell’emergenza, subordinate solo alla valutazione della compatibilità delle mansioni assegnate al lavoratore o alla lavoratrice con la modalità a distanza. Si può osservare, in generale, come in questi casi le esigenze di conciliazione rivestano un’importanza tale da incidere sul potere (altrimenti) discrezionale del datore di lavoro, imponendo di motivare la mancata adozione o il differimento della misura organizzativa richiesta dal lavoratore e assoggettando pertanto la decisione del datore di lavoro al controllo del giudice. Si tratta di segnali dell’emersione nella struttura del contratto di lavoro del diritto alla conciliazione, frutto dell’elaborazione della dottrina più attenta a questi temi.
Proprio questo aspetto, senz’altro delicato, spiega la cautela con la quale nei provvedimenti recenti viene introdotto il tema della flessibilità dell’orario di lavoro. Nello schema di decreto legislativo attuativo della direttiva la questione non è affatto affrontata, tanto che il parere della Commissione Lavoro invita il Governo a valutare “l’opportunità di prevedere misure atte a favorire i lavoratori con figli o lavoratori prestatori di assistenza l’accesso a modalità di lavoro flessibile”. Nel Family Act, all’art. 4, lett. b, si prevedono “incentivi per i datori di lavoro che applicano le clausole dei contratti collettivi nazionali di lavoro, stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che, ai fini dell’armonizzazione dei tempi di vita e di lavoro, prevedono modalità di lavoro flessibile”. Insomma, non un diritto alla flessibilità, ma misure incentivanti, con il coinvolgimento della contrattazione collettiva.
Sul punto si possono svolgere alcune osservazioni.
Nel Protocollo nazionale sul lavoro in modalità agile siglato il 7.12.2021, ad esempio, si legge che le parti sociali “si impegnano a rafforzare i servizi e le misure di equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza”, riprendendo testualmente l’intitolazione della direttiva. Si tratta di un segnale di attenzione alle previsioni europee che deve essere valorizzato nella dinamica della contrattazione collettiva tanto nazionale quanto, soprattutto, di secondo livello, dove la conoscenza della concreta organizzazione produttiva può permettere di individuare soluzioni adeguate alle esigenze in gioco.