IVA

30 Novembre 2022

False dichiarazioni d'intento? La responsabilità ricade sul cedente

La giurisprudenza in materia ha operato un notevole alleggerimento dell’onere probatorio gravante sul Fisco, penalizzando oltremodo il contribuente, spesso chiamato a un'impervia e a tratti impossibile azione difensiva.

Nelle frodi Iva attuate mediante la predisposizione e rilascio di false dichiarazioni d’intento, si assiste sempre più spesso a una forma di estremizzazione della responsabilità in capo al cedente che, ricevendo una dichiarazione d’intento da colui che si qualifica come esportatore abituale, provveda alla cessione di beni e alla correlata emissione di fatture senza applicazione di Iva. In pratica si attribuisce al cedente la responsabilità della verifica di regolarità della posizione del cessionario (esportatore abituale) e in alcuni casi anche dell’effettività dell’esportazione della merce ceduta in esenzione di Iva.

Il presupposto fondante i recuperi d’imposta nei confronti del cedente si basa essenzialmente su un rigoroso orientamento giurisprudenziale in base al quale si presume che il cedente, fornitore del “falso esportatore abituale”, abbia agito senza adottare la diligenza dovuta, presumendo di conseguenza in capo a questi un’addotta conoscenza o conoscibilità della frode. A carico del cedente vengono pertanto emessi avvisi di recupero di imposte in cui gli si contesta l’irregolare emissione di fatture in regime di non imponibilità (ex multis, ordinanza n. 22003/2022 della V Sez. Civ. della Cassazione).

La conclusione cui si perviene risulta ragionevolmente poco condivisibile, in quanto si pretende che il cedente si conformi a elevati standard di diligenza e di controllo, ritenendosi esigibile in capo al cedente stesso l’adozione di tutte le misure che si possano richiedere a un “accorto operatore commerciale” al fine di assicurarsi che l’operazione effettuata non lo conduca a partecipare a un’evasione di imposte. Si giustifica, con ciò, un depotenziamento dell’onere probatorio gravante sul Fisco, sostenendo che non è posta alcuna necessità di accertare una complicità del contribuente nella frode, ma semplicemente accertare il mancato rispetto di standard di diligenza imposti ad un accorto operatore commerciale e, di conseguenza, la sua negligenza.

In pratica, nelle cessioni all’esportazione in regime di sospensione d’imposta ex art. 8, D.P.R. 633/1972, se la dichiarazione d’intenti si rivela ideologicamente falsa perché emessa da soggetto privo del requisito di esportatore abituale, al cedente non è consentito l’esercizio fraudolento del diritto di valersi del limite di esecutività, correlato alla suddetta qualità di esportatore abituale, qualora, anche in base a elementi presuntivi, questi disponga di elementi tali da sospettare l’esistenza di irregolarità, gravando sul medesimo un onere di diligenza mediante l’adozione di tutte le ragionevoli misure in proprio potere.

Tali conclusioni non si condividono in quanto, oltre a essere eccessivamente penalizzanti, comportano nella penalizzazione del contribuente un’evidente violazione del principio di proporzionalità che, com’è noto, rappresenta un concetto fondamentale di giustizia riguardo all’adozione di mezzi di controllo, che devono essere sempre graduati e adeguati al fine. Il fine di garantire la regolarità degli adempimenti tributari e le entrate dello Stato, non deve condurre a giustificare qualsiasi mezzo, compreso un aggravio ingiustificato della posizione di colui che viene chiamato a rispondere della frode fiscale, quando di questa non ne ha avuto neanche la minima contezza.

C.F e P.IVA: 01392340202 · Reg.Imp. di Mantova: n. 01392340202 · Capitale sociale € 210.400 i.v. · Codice destinatario: M5UXCR1

© 2024 Tutti i diritti riservati · Centro Studi Castelli Srl · Privacy · Cookie · Credits