Lettera del direttore ·
29 Aprile 2024
Come vengono lette le nuove specializzazioni prodotte dai nuovi corsi di laurea o diplomi di scuola superiore? Riflessioni su cosa offre oggi il mondo universitario al mondo del lavoro
Una buona notizia c’è: quattro università italiane sono state riconosciute tra le migliori al mondo. Ognuna per aree specifiche, ma sono lì a testimoniare un patrimonio di eccellenza.
Mi ha sempre stupito, però, la fantasia con la quale si sono definiti i corsi universitari di più recente impostazione. Sono percorsi sempre più a cavallo di discipline tradizionali e materie nuove che si mescolano a definire profili di professionalità a volte difficili da decifrare.
Mi sono chiesto se, poi, tutte queste figure abbiano veramente corrispondenza con la richiesta del mercato del lavoro. Un mercato che richiede competenze sempre nuove, come è naturale, ma che si innestano su basi professionali riconosciute.
Tutte le professioni sono giustamente sollecitate da innovazioni tecnologiche, legislative, metodologiche accelerate che riguardano i prodotti e i processi; tuttavia, c’è una base di solidità da preservare, così come esiste una base tecnica di fondo che informa la progettazione e le tecniche di produzione. L’innesto di conoscenze nuove su una base solida mi sembra alla fine una prospettiva più efficace.
Forse non è così evidente questa bulimia universitaria di nuove etichette nelle scuole superiori, dove esistono valide e doverose sperimentazioni sul nuovo, ma dove sono più efficacemente innestate su un nucleo di saperi fondativi. Ecco, il modello che mi piace è la riproposizione (conservazione non è termine appropriato) di una base fondativa riconosciuta che sappia utilizzare i saperi classici (anche il latino, perché no?) e materie umanistiche in grado di sviluppare e alimentare pensiero e nuovi approcci formativi, dinamici, sempre attuali e legati al progresso tecnologico. Che, magari, possano uniformare tutto il sistema di istruzione superiore in tutto il Paese senza produrre isole di sperimentazione.
Sempre più le imprese tendono a non fidarsi delle etichette, ma scrutano i curricola, esame per esame, sperimentazione per sperimentazione, magari fidandosi del buon nome dell’università o della singola facoltà, o dell’istituto superiore, ma facendo le pulci ai contenuti degli insegnamenti.
Si capisce bene che non sono più sufficienti le antiche e indistinte diciture di ingegnere o geometra, ragioniere o di altre professionalità. Ci sono settori specializzati che richiedono figure precise, con conoscenze mirate. Ci sono temi come la sostenibilità, la sicurezza, l’informatica, la robotica o l’intelligenza artificiale che hanno sconvolto le professioni e specializzato i saperi.
Credo, però, che nessuna innovazione possa prescindere dal formare una testa che pensa, che sappia dotarsi degli strumenti per una formazione continua e incessante, così come incessante è lo stimolo della tecnologia e delle nuove dinamiche culturali che avvolgono l’impresa.
Quindi ben venga una buona reputazione di eccellenza che sembra ottenuta dalle università italiane in ambiti dove si è al passo con i tempi dell’innovazione e, al contempo, non si dimentica la formazione umanistica. Forse è proprio questo il segreto del riconoscimento alle università italiane rispetto ad altri Paesi dove si propone, senza pausa riflessiva, una esasperata rincorsa a una formazione troppo rivolta all’ultima innovazione. I casi di burn-out tra manager sotto pressione competitiva sono all’ordine del giorno.
La ricerca dell’equilibrio mi sembra la soluzione più saggia, che è proposta, tra l’altro, dal Paese che le università le ha inventate e che un po’ di esperienza l’ha acquisita nei secoli.