Amministrazione del personale
16 Dicembre 2024
Il D.D.L. lavoro approvato al Senato fissa i criteri per stabilire la durata del patto di prova eventualmente previsto nei contratti a termine.
Il D.D.L. Lavoro approvato in via definitiva al Senato interviene sulla disciplina del patto di prova e definisce i criteri per stabilirne la durata nei rapporti di lavoro a tempo determinato.
Si rammenta che l’art. 7 del c.d. decreto Trasparenza (D.Lgs. 104/2022) dispone che la durata massima del periodo di prova non può superare 6 mesi, fermo restando che la contrattazione collettiva può prevedere una durata inferiore. Per i rapporti di lavoro a termine, tuttavia, il decreto non ha indicato un limite preciso, ma stabilisce soltanto che il periodo di prova deve essere calcolato in misura proporzionale alla durata del contratto e alle mansioni da svolgere, in relazione alla natura dell’impiego.
Dall’assenza di un parametro preciso, derivano particolari difficoltà di riproporzionamento della prova nei contratti a termine, considerato altresì che la contrattazione collettiva fissa generalmente la durata del patto in giorni o in mesi, riferendosi ai rapporti a tempo indeterminato. Si tratta di un aspetto affatto trascurabile, considerato che un’adeguata definizione della durata consente di stabilire un lasso temporale ragionevole e sufficiente per valutare le qualità professionali del lavoratore e che, oltretutto, essa circoscrive il periodo entro il quale ciascuna delle parti può recedere dal contratto senza l’obbligo di preavviso o d’indennità (art. 2096 c.c.).
Le novità introdotte dal D.D.L. Lavoro integrano l’art. 7, c. 2 del decreto Trasparenza e prevedono che nei contratti a tempo determinato, fatte salve le disposizioni più favorevoli della contrattazione collettiva, come criterio generale, la durata del periodo di prova è stabilita in 1 giorno di effettiva prestazione per ogni 15 giorni di calendario a partire dalla data di inizio del rapporto di lavoro. In ogni caso la durata del periodo di prova non può essere inferiore a 2 giorni né superiore a 15 giorni, per i rapporti di lavoro aventi durata non superiore a 6 mesi, e a 30 giorni, per quelli aventi durata superiore a 6 mesi e inferiore a 12 mesi. A ben vedere, il criterio di calcolo introdotto dalla norma risponde a criteri di effettività, fra l’altro conformandosi ai principi indicati nella Direttiva (UE) n. 1152/2019 e, al contempo, riafferma il ruolo principale della contrattazione collettiva alla quale è demandato il compito di prevedere regole eventualmente più favorevoli.
La norma lascia immutate le regole che riguardano la reiterazione e la sospensione della prova, per cui se le parti rinnovano un rapporto di lavoro con le stesse mansioni, il contratto non può prevedere un nuovo periodo di prova; inoltre, quando si verificano eventi come la malattia, l’infortunio, il congedo di maternità o paternità obbligatori, congedi e permessi di cui alla L. 104/1992, sciopero o sospensione dell’attività per decisione datoriale, il periodo di prova è prolungato in misura corrispondente alla durata dell’assenza (art. 7, c. 3; C.M. Lavoro 20.09.2022, n. 19).