Diritto del lavoro e legislazione sociale
22 Giugno 2024
La normativa antidiscriminatori introdotta dal D.Lgs. 216/2003, di attuazione della direttiva 2000/78/CE, non si applica solo a tutela delle persone con disabilità, ma si estende anche ai lavoratori che se ne prendono cura, i caregiver.
Con l’ordinanza 20.05.2024 n. 13934, la Corte di Cassazione ha confermato l’orientamento per cui i divieti antidiscriminatori previsti dal D.Lgs. 216/2003 di attuazione della direttiva 2000/78/CE vanno estesi anche ai soggetti che subiscono in modo collaterale lo svantaggio tutelato.
Tale orientamento mutua quanto già elaborato dalla Corte di Giustizia Europea a seguito dell’emanazione delle direttive 2000/43/CE e 2000/78/CE (recepite in Italia dal già citato D.Lgs. 216/2003). La Corte di Giustizia nelle decisioni Coleman e Chez aveva, infatti, stabilito che la discriminazione non riguarda solo le persone che presentano una determinata caratteristica ma anche quelle che, senza possedere tale caratteristica, subiscono, insieme alle prime, il trattamento meno favorevole o di svantaggio. La discriminazione per associazione consente, quindi, di porre l’accento sulla dimensione sociale della discriminazione che può avere effetti collaterali colpendo il gruppo anche al di là del singolo soggetto.
Il caso affrontato dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza 20.05.2024, n. 13934, riguarda l’impugnazione da parte di una lavoratrice dipendente che fruiva dei permessi di cui alla L. 104/1992 per l’assistenza al marito (in quanto persona con necessità di sostegno intensivo) licenziata per giustificato motivo oggettivo.
La Corte di Cassazione ha ripreso una decisione della Corte Giustizia UE (17.07.2008 n. 303) in cui era stabilito che “qualora un datore di lavoro tratti un lavoratore che non sia esso stesso persona con disabilità, in modo sfavorevole rispetto al modo in cui è, è stato o sarebbe trattato un altro lavoratore in una situazione analoga, e sia provato che il trattamento sfavorevole di cui tale lavoratore è vittima è causato dalla disabilità del figlio, al quale presta la parte essenziale delle cure di cui quest’ultimo ha bisogno, un siffatto trattamento viola il divieto di discriminazione diretta”. Nel caso affrontato dalla Cassazione, poi, la lavoratrice aveva offerto elementi fattuali: il dato incontestato che altri lavoratori erano stati trasferiti e non licenziati e che vi fossero sedi della società più vicine alla residenza della persona con disabilità. Da ciò potrebbe desumersi, all’esito di un compiuto giudizio, un trattamento discriminatorio.
La Corte ha poi ripreso quanto previsto dall’art. 2 D.Lgs. 216/2003 secondo cui si ha una discriminazione diretta quando, per religione, per convinzioni personali, per disabilità, per età, per nazionalità o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga. Secondo il principio di discriminazione per associazione, la previsione va allargata ricomprendendo anche il lavoratore che assiste la persona con disabilità. Le tutele non garantiscono quindi solamente “la persona con disabilità” ma allargano il campo comprendendo più in generale “la disabilità”.
La Corte ha, pertanto, cassato la sentenza d’appello, rinviando la decisione ad altro collegio di giudici di merito per non aver tenuto conto, nella valutazione della fattispecie, della disciplina antidiscriminatoria di cui al D.Lgs. 216/2003.
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