Accertamento, riscossione e contenzioso

19 Gennaio 2024

Credito d'imposta non spettante o inesistente, novella infinita

Continua l’incertezza interpretativa sulla natura del credito d’imposta “recuperato”, nonostante l’intervento delle Sezioni Unite della Cassazione. E non solo: la riforma fiscale (per ora) aggiunge incertezza.

La qualificazione attribuita al recupero del credito d’imposta non è di poco conto: l’indebita fruizione di un credito inesistente, infatti, comporta una sanzione amministrativa dal 100% al 200%, l’impossibilità di rimediare con gli istituti del ravvedimento operoso e della dichiarazione integrativa, nonché la reclusione da 6 mesi a 6 anni qualora l’importo indebitamente fruito superi 50.000 euro nel singolo periodo d’imposta. Infine, i termini di accertamento si prescrivono entro il 31.12 dell’ottavo anno successivo. Nell’ipotesi, invece, di contestazione di un credito d’imposta non spettante, l’impianto sanzionatorio è notevolmente mitigato: sanzione amministrativa che scende al 30%, possibile accesso al ravvedimento operoso e alla dichiarazione integrativa, reclusione da 6 mesi a 2 anni se la violazione eccede 50.000 euro, mentre i termini prescrizionali di accertamento scadono entro la fine del quinto anno successivo.

Così sintetizzate le differenze fra le due fattispecie, gli uffici sembrano ignorare (o disattendere) il chiaro principio enunciato dal diritto vivente e confermato, come di seguito evidenziato, dalle Sezioni Unite della Cassazione: è inesistente il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costituivo e la cui inesistenza non sia riscontrabile attraverso i controlli esperiti dall’Amministrazione Finanziaria. In particolare, devono ricorrere contestualmente i seguenti requisiti:

  • l’assenza del presupposto costitutivo, quando il credito non risulta dai dati contabili, finanziari o patrimoniali del contribuente;
  • l’inesistenza non deve essere riscontrabile attraverso controlli automatizzati o formali o dai dati in anagrafe tributaria.

Dunque, l’inesistenza presuppone la contestazione sia del presupposto costitutivo sia dell’intento fraudolento e, nello specifico, la chiara volontà di ostacolare l’attività di controllo del Fisco; oltretutto, il riferimento operato al riscontro dell’esistenza del credito da utilizzare in compensazione, mediante procedure automatizzate, rappresenta condizione ulteriore rispetto a quella dell’esistenza sostanziale del credito e mira a evitare l’applicazione di sanzioni più gravi quando il credito, pur sostanzialmente inesistente, può essere facilmente intercettato mediante controlli automatizzati, nel presupposto che la condotta del contribuente si connota per scarsa insidiosità.
Al riguardo, l’esempio più eclatante di oggettivo errore interpretativo, da parte dell’Agenzia delle Entrate, è quello riferibile al recupero del credito d’imposta per spese relative a ricerca e sviluppo, le quali, come noto, devono essere:

  • corredate dalla documentazione di supporto delle relazioni tecniche;
  • certificate da un revisore;
  • esattamente corrispondenti alle scritture contabili;
  • oggetto di specifica informazione nella nota integrativa (per le società di capitali);
  • indicate nel modello Redditi – quadro RU e identificate con specifico codice.

Peraltro, proprio con riferimento al credito d’imposta R&S, è stata prevista una specifica sanatoria: al riguardo, si segnala che il D.L. 145/2023 ha posticipato dal 30.11.2023 al 30.06.2024 il termine per presentare l’istanza di adesione alla sanatoria per i crediti d’imposta 2015-2019, con riversamento dei medesimi senza sanzioni né interessi.
Per quanto precede, il regime sanzionatorio più rigido dovrebbe essere applicato solo nelle ipotesi di violazioni gravi, ovvero in presenza di irregolarità che, sotto il profilo formale e sostanziale, risultino caratterizzate da specifica pericolosità per gli interessi erariali.

È quanto si ricava, come anticipato, anche dalle Sezioni Uniti Civili della Cassazione (sentenze 11.12.2023, nn. 34419 e 34452), che hanno ribadito il principio sopra richiamato, ossia il discrimine rappresentato, ai fini della corretta qualificazione del credito recuperato, dalla sussistenza congiunta dei seguenti requisiti:

  • il credito, in tutto o in parte, è il risultato di una artificiosa rappresentazione ovvero è carente dei presupposti costitutivi previsti dalla legge ovvero, pur sorto, è già estinto al momento del suo utilizzo;
  • l’inesistenza non è riscontrabile mediante i controlli automatizzati.

A complicare la questione è intervenuta, evidentemente ignorando o disattendendo le sentenze sopra citate, la stessa Cassazione che, con sentenza 2.01.2024, n. 6, ha ritenuto inapplicabile, in ambito penale-tributario, la distinzione tra crediti non spettanti e inesistenti disciplinata all’interno del sistema sanzionatorio amministrativo. Il fondamento di tale assunto risiederebbe nell’assenza di uno specifico richiamo all’art. 13 D.Lgs. 471/1997 nella fattispecie di indebita compensazione di cui all’art. 10-quater D.Lgs. 74/2000. Ciò rappresenterebbe un elemento ostativo a supportare l’inapplicabilità della definizione di “credito inesistente” contenuta nella normativa tributaria. Né assumerebbe rilievo la possibile intercettazione del credito mediante controlli automatizzati.

Non resta che confidare che, almeno, la riforma fiscale chiarisca definitivamente la questione, anche se, allo stato dei fatti, la bozza del testo normativo che disciplina la fattispecie non è in linea con la condivisibile posizione delle Sezioni Unite. Auspichiamo che il legislatore ci ripensi: sarebbe un passo nella direzione della semplificazione che, in ambito fiscale, sembra essere una chimera.

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