Imposte dirette
07 Settembre 2022
Si conferma un orientamento non condivisibile, sul piano logico e sistematico, secondo cui la presunzione di distribuzione ai soci opera anche nel caso di rettifica del reddito per costi non deducibili (Cass. 25.08.2022, n. 25322).
L’imputazione ai soci, pro quota, del maggior reddito recuperato in capo ad una società di capitali a ristretta base proprietaria costituisce da sempre fonte di grande argomentazione da parte della giurisprudenza nel corso del tempo. Un percorso che ha previsto come risultato una presunzione che consiste nel ritenere che nelle società a ristretta base proprietaria, ossia con un numero di soci ridotto, sia verosimile ritenere che i maggiori utili in nero della società siano distribuiti, in nero, tra i soci. La presunzione si fonda sull’assunto che nelle società a ristretta base sociale, mancando una separazione netta tra la compagine sociale e l’organo amministrativo, sia logico ritenere che i destinatari dei vantaggi derivanti dagli illeciti commessi dalla società siano direttamente i soci: sono questi, insomma, che intascano i ricavi non dichiarati dalla società. Ad avviso di alcuni giudici, in ragione della presunzione in esame, deve essere imputata in capo ai soci una quota lorda del reddito della società in base al regime di trasparenza disciplinati dall’art. 5 del Tuir e dagli artt. 115 e 116 del Tuir. Tuttavia, il ragionamento appare errato.
La presunzione di distribuzione di utili in nero presume, come fatto ignoto da provare, l’incasso di somme non dichiarate. Non si tratta, quindi, dell’imputazione di una quota di reddito della società, bensì di ritenere verosimile che la ricchezza prodotta dalla società e non dichiarata sia stata incassata dai soci. Non è reddito, ossia un valore fiscale, bensì ricchezza materiale, quindi utile.
Nel regime di trasparenza, invece, si ha l’imputazione di un reddito. Ne deriva che mentre ai fini dell’operatività della presunzione di distribuzione nelle società a ristretta base sociale resta imprescindibile che si possa compiere il fatto materiale della percezione/incasso di somme da parte dei soci, corrispondenti ai ricavi non dichiarati dalla società, una simile percezione rimane irrilevante nei regimi di trasparenza. Ecco perché il ragionamento della Cassazione appare errato.
Diversamente da quanto sostiene la Suprema Corte, non è infatti razionale affermare che la presunzione in esame possa indistintamente operare sia in caso di accertamento di ricavi occultati sia in caso di disconoscimento di costi, aspetto riconosciuto invece nei regimi di trasparenza, dove ai soci deve essere imputata quota parte del reddito della società. Nella presunzione di distribuzione degli utili in nero, invece, dal momento che il fatto ignoto è la materiale apprensione, da parte dei soci, di utili non transitati a bilancio, occorre che vi sia concretamente una provvista di denaro distribuibile, cosa, questa, che evidentemente non vi può essere laddove i costi siano stati realmente sostenuti ed il fatto che detti costi non siano deducibili comporta solamente che il reddito risulterà poi più consistente dell’utile.
Nella presunzione, il fatto ignoto da provare non può essere una grandezza fiscale, ma deve necessariamente essere una vicenda economica reale, integrata dal materiale incasso di somme da parte della società che sono, poi, state acquisite dai soci. A monte, quindi, occorre necessariamente che il reddito rettificato sia integrato da maggiori incassi non dichiarati. Sicché, nel caso di spese effettive disconosciute, manca il fatto che rende verosimile il ragionamento presuntivo, per l’evidente motivo che non può essere stato incassato nulla dai soci.