ETS ed Enti non commerciali
26 Agosto 2021
Il DL n. 77/2021 ha previsto che l’ente religioso possa inserire nel ramo anche le “attività diverse” (art. 6, Codice Terzo Settore). Anche l’art. 16 della legge concordataria n. 222/1985 menziona le “attività diverse”, ma con altro significato.
Gli enti ecclesiastici della Chiesa Cattolica devono necessariamente svolgere una o più delle cosiddette attività di religione o culto: si tratta di una delle condizioni essenziali per cui ad essi è riconosciuta dal Ministero dell’Interno la particolare qualifica di ente ecclesiastico; tant’è che qualora queste attività dovessero venir meno, e con esse anche la finalità di “religione o culto”, tale qualifica può essere revocata con provvedimento del Ministero dell’Interno (così prevede l’art. 19, c. 2, L. 222/1985, recante “Disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia”).
Sempre in sede bilaterale (art. 16) la Chiesa Cattolica e lo Stato hanno puntualmente identificato, “agli effetti delle leggi civili”, le attività “religione o culto” (esercizio del culto e cura delle anime, formazione del clero e dei religiosi, scopi missionari, catechesi, educazione cristiana) distinguendole dalle cosiddette “attività diverse”, cioè tutte le altre attività, incluse quelle commerciali o a scopo di lucro.
Questo doppio elenco risponde (ed era il 1984) a una duplice esigenza di entrambe le parti:
La questione delle attività non è però limitata all’interno di questo orizzonte in quanto le parti concordatarie avevano già previsto all’art. 7 del Concordato del 1984 (ratificato con la L. 121/1985), e ribadito all’art. 15, L. 222/1985, che, comunque, l’ente ecclesiastico può svolgere anche le attività che non rientrano nel novero di quelle di religione o culto: appunto, quelle che l’art. 16 denomina genericamente “attività diverse”. Dunque:
In questo impianto, definito in modo bilaterale dalla Chiesa e dallo Stato, non vi è alcun indizio della necessità di una sorta di strumentalità delle seconde rispetto alle prime.
Per evitare possibili equivoci il D.Lgs. n. 460/97 ha poi previsto e chiarito che i criteri prettamente fiscali per determinare la prevalenza dell’attività commerciale di un ente (art. 149, cc. 2 e 4 del TUIR) non devono essere utilizzati per misurare quale attività è prevalente nell’ente ecclesiastico, dovendo essere utilizzati i criteri espliciti ed impliciti nella normativa concordataria di cui sopra.
Inoltre, non può essere trascurata la forza interpretativa dell’inciso iniziale dell’art.16, L. 222/1985: “Agli effetti delle leggi civili si considerano comunque: […]”. La distinzione tra attività di religione o culto e quelle che non lo sono rileva solo in riferimento all’ordinamento italiano, in quanto per l’ordinamento canonico il criterio per identificare le attività che possono essere svolte dai suoi enti è dato dal can. 1254: “§1. La Chiesa cattolica ha il diritto nativo, indipendentemente dal potere civile, di acquistare, possedere, amministrare ed alienare beni temporali per conseguire i fini che le sono propri. §2. I fini propri sono principalmente: ordinare il culto divino, provvedere ad un onesto sostentamento del clero e degli altri ministri, esercitare opere di apostolato sacro e di carità, specialmente a servizio dei poveri”.
In altre parole: nell’ordinamento ecclesiastico la priorità è riconosciuta ai fini e non a un elenco, più o meno aperto, di attività.